A partire dalla Sua attuale carica di Ministro dell’Università e della Ricerca, e dal Suo particolare punto di osservazione così privilegiato, quali sono le principali sfide dell’Università, nell’identità e nella missione, alla luce delle emergenze che stiamo attraversando?
Le sfide dell’Università sono le sfide del Paese per ripartire e per crescere in competitività a livello europeo e internazionale. Questi mesi hanno comportato sacrifici per tutti, soprattutto per i nostri studenti, e hanno pesantemente inciso nel sentimento di sentirci comunità, un termine che non uso a caso. Le università sono comunità che edificano coscienze critiche, formano donne e uomini capaci di affrontare cambiamenti e orientare il futuro. Questo lo fanno, insieme, docenti, personale tecnico, scientifico, amministrativo, studentesse e studenti. Nonostante i sacrifici e la frammentazione, in questo anno la comunità universitaria è riuscita a fare emergere il ruolo più autentico e affascinante della scienza, quello che esalta l’aspetto di solidarietà sociale. Le comunità accademiche hanno bisogno di spazi adeguati per crescere e rafforzarsi. Stiamo intervenendo per favorire inclusione ed equità,faro per superare i gap territoriali, sociali e di genere che ancora ci sono. Dobbiamo investire sulle persone: ciò significa promuovere programmi per rafforzare non solo i profili di competenza, ma anche rafforzare le carriere dei giovani studenti e sostenere la mobilità fra le diverse istituzioni. Far crescere le comunità significa anche mettere a sistema, in un circuito virtuoso, l’esistente, condividendone risorse e infrastrutture. Gli investimenti, da soli, non sono sufficienti: per essere davvero efficaci serve modificare il sistema delle regole. Vogliamo avviare una stagione delle riforme che consenta, da un lato, di riconoscere l’unicità e la specificità del mondo universitario e della ricerca e, dall’altro, di operare con maggiore agilità per essere attrattivi e affidabili.
Le relazioni tra le Università italiane e le Università Pontificie hanno registrato una crescente collaborazione e sinergia. Quale apporto formativo e culturale possono offrire a suo avviso le Università e Istituzioni Pontificie presenti a Roma?
Possono contribuire a valorizzare il ruolo della persona nella costruzione del sapere, oltre che nell’accompagnare i giovani verso un impegno etico che consenta loro di essere sempre più cittadini attivi, presenti e partecipi nelle proprie comunità, all’interno della pubblica amministrazione cui sono affidate le maggiori sfide per il rilancio e il futuro del Paese. La particolare attenzione verso le discipline umanistiche va al di là dell’interesse vocazionale degli atenei e restituisce un più solido percorso formativo e una maggiore attenzione all’edificazione della persona. Il nostro sistema universitario nazionale è riconosciuto e apprezzato a livello internazionale ma, terminati gli studi in Italia, sono ancora molto numerosi i laureati che continuano la ricerca in altri Paesi.
Cosa può fare l’Università per trattenerli o richiamare i nostri migliori ricercatori?
Non solo dobbiamo lavorare per correggere le criticità che rendono difficile, oggi, consentire un ritorno dei ricercatori italiani all’estero, ma anche attrarre ricercatori e docenti stranieri che vorrebbero trascorrere un periodo professionale e di vita in Italia. Per incentivare una circolazione di persone e di saperi dobbiamo semplificare per fare in modo che gli atenei che vorrebbero investire in questo ma che si trovano di fronte percorsi burocratici tortuosi non gettino la spugna. Dobbiamo anche rendere più aperto e libero il sistema, partendo anche da “piccoli” aspetti come l’utilizzo della lingua inglese nei bandi. Data la centralità dell’arte e della cultura nel potenziale attrattivo del nostro Paese, dobbiamo intervenire per dare maggiore spazio alle accademie, ai conservatori, creando un ponte tra queste istituzioni e le università per attrarre capitale umano dall’estero. Nel Recovery Plan sono diversi gli strumenti e le misure previste per sostenere i giovani, e le donne, nella ricerca. Accanto alle risorse e agli investimenti, importante sarà riuscire a definire in modo più chiaro il percorso di chi vuol fare ricerca, un percorso lungo e negli ultimi anni anche imprevedibile. Per richiamare chi vive all’estero deve essere certo il percorso professionale, il che non significa assicurare a chiunque di riuscire a fare carriera.
Donne e Università. Ci sono rilevanti esempi di donne che in ambito accademico ricoprono ruoli importanti, restano però ancora molte le difficoltà nel raggiungere ruoli dirigenziali. Quali strumenti mettere in campo?
Il divario di genere nel mondo scientifico, in realtà, non è un tema che riguarda solo i ruoli dirigenziali, ma è una questione che tocca trasversalmente l’intero settore.Secondo i dati più recenti, nell’università italiana le donne rappresentano il 55% degli iscritti, mentre nei corsi di laurea STEM (scienze, tecnologia, ingegneria,matematica), quelli a maggior crescita occupazionale, si fermano al 37%. Sebbene proprio nelle discipline STEM le ragazze conseguano il titolo con un voto più elevato (103,6) e nei tempi rispetto ai ragazzi (101,6), completando in corso gli studi (46%), sembrano non essere riconosciute dal mercato del lavoro. Dopo cinque anni dalla laurea, il tasso di occupazione degli uomini laureati nei corsi STEM (92%) è più elevato di quello delle donne (85%), a fronte di un tasso di occupazione generale dei laureati in queste discipline dell’89%. Dobbiamo affrontare il tema ragionando sul breve, sul medio e sul lungo termine. Il risultato a lungo termine lo otterremo agendo sull’aspetto culturale, sin da bambini, agendo sulla scuola, sull’orientamento, sulla famiglia: anche se i risultati si vedranno tra 20 anni bisogna partire. A medio termine,dobbiamo usare tutti gli strumenti per orientare gli studenti delle scuole superiori e per agevolare anche in termini economici, e non solo di carriera, le ragazze a iscriversi ai corsi STEM. Sono misure che abbiamo già messo in atto e su cui dedichiamo fondi anche del Recovery Plan; ogni ateneo fa la propria parte, dovremmo cercare di renderle più forti mettendole a sistema. A breve termine bisogna agire su progetti di governance del lavoro, cercando da un lato di mettere a disposizione fondi per la riconversione delle competenze di chi già lavora e magari favorendo le donne in questo senso e dall’altro agevolando le donne in posizioni di governance, a parità di merito.
Cosa si può fare per creare percorsi stabili tra scuola superiore e Università, da offrire ai giovani che si diplomano e si avviano al mondo dell’università?
Il primo passo necessario è offrire ai giovani strumenti di orientamento che possano davvero supportarli nella fase di scelta cruciale per il proprio futuro. E questo credo si debba fare sempre di più e sempre meglio in collaborazione con il privato, con coloro che immaginano oggi i lavori di domani; lo dobbiamo fare con loro per individuare le conoscenze, le competenze e le abilità che serviranno e, sulla base di queste, pianificare oggi i percorsi formativi.
Un messaggio particolare per la comunità accademica dell’Università Pontificia Salesiana?
L’augurio di continuare a proporre percorsi in grado di integrare “Testa, Cuore e Mani” di studenti, ricercatori e professori, per fornire alla nostra “Next Generation” spazi sempre più adeguati per una migliore cultura a servizio del Paese che metta al centro il valore delle persone e delle comunità.